Post by MagnoDi quali difficoltà parliamo?
Difficoltà nel senso che ci sono passaggi complicati dovuti ad una diversa
dinamica sulle mani, ad un diverso colore, alla loro indipendenza o
difficoltà dovute a velocità di esecuzione o ancora dovute a passaggi
difficili fra orchestra e solista?
Sarebbe interessante per me differenziare le difficoltà, se avete tempo oh
prodi pianisti del NG...:-)
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Byez!
Magno
Allora, non sono io il più titolato ma ci provo.
Si parla di difficoltà meccaniche/tecniche, e possono venire in mente
i lanci a braccia larghe (quelli che non puoi tener sotto controllo
con la vista, con la m.s. che va a sinistra e la m.d che va a destra,
a meno di non essere strabico) che richiede Brahms nel primo tempo del
secondo concerto: la diffcoltà è innanzitutto puramente meccanica, e
cioè di movimento. Mettere il dito giusto al posto giusto. E in quel
passaggio è già molto difficile, ma c'è di più.
Quella difficoltà "meccanica" diventa poi "tecnica" nel momento in cui
devi fare il modo che il suono prodotto dallo strumento abbia una sua
collocazione logica nel contesto del discorso, e quindi alla già alta
difficoltà pura legata al movimento esasperato devi aggiungere il
fatto che quel movimento non solo devi farlo in modo da incotrare i
tasti giusti, ma anche in modo da incontrarli nel modo giusto,
azionarli nel modo giusto e rilasciarli nel modo giusto: in quel caso
Brahms richiede che ci sia un sospiro volante, basato su una
combinazione ritmica molto frammentata e su una disposizione della
tessitura delle due mani molto disomogenea (partono vicine e si
allontanano simmetricamente), il quale sospiro si deve gonfiare via
via cambiando sia nel timbro sia nella dinamica sino ad arrivare ad
uno spianato episodio ondeggiante (passatemi l'ossimoro) basato su
continui contrasti di registro (alto-basso), nel quale in più c'è
qualche strumentino asmatico al quale devi dare retta e che devi stare
attento a non schiacciare. E a questo punto la difficoltà che prima
era solo "meccanica" (i salti), e che poi è diventata "tecnica" (il
suono ed il fraseggio), ora diventa anche "di concertazione", nel
senso che anche il direttore deve metterci del suo e capire che tipo
di equilibrio instaurare fra un pianista, un pianoforte da 5 quintali,
un flauto da 3 etti ed un flautista. Detto che quel passaggio non è
tra i più difficili del secondo concerto è detto tutto.
Il primo concerto di Bartok è forse altrettanto difficile per il
pianista quanto lo è per il direttore, il quale nel primo movimento si
trova a dirigere un'orchestra senza i suoi più fidi alleati, cioè
senza gli archi, e che quindi deve costruire delle sonorità che
accompagnino un pianoforte senza potersi affidare al suo battaglione
preferito e duttile, ed anche più familiare al pubblico. Il pianista
in quella partitura ha già tanto da preoccuparsi, che non è il caso
che il direttore chieda troppa collaborazione. Quando la ottiene è un
caso fortunato, e vuol dire che i due sono chiaramente due amici,
possibilmente coetanei e conterranei, ma soprattutto ambedue
corazzatissimi musicisti, tipo Pollini e Abbado o Anda e Fricsay o
Donohoe e Rattle. Se il direttore ha il suo bel da fare, il pianista
si trova di fronte a difficoltà "meccaniche" che stavolta sfociano in
una tecnica nuova che spinge a trasformare l'atteggiamento sonoro
dell'esecutore lungo percorsi molto scabrosi, nei quali il pianoforte
deve essere portato alle sue estreme possibilità timbriche, le quali
stanno alla base della famosa componente "percussiva" della poetica
bartokiana. Siamo in questo caso di fronte allora ad un nuovo tipo di
difficoltà e cioè quel tipo di difficoltà che si manifesta nel momento
in cui devi "disimparare ciò che hai imparato", il legato tanto caro a
Schumann (tanto per dire) o il "jeux perlè" utile in Mendelssohn
(tanto per dire) o la sonorità polifonica che fa comodo in Bach (tanto
per dire), cose che son costate tutte anni e anni di apprendimento, te
le devi lasciare tutte alle spalle, reinventarle nella migliore delle
ipotesi o addirittura iniziare a picchiare (senza pestare?) sui tasti
come non hai mai fatto prima e come nessuno ti ha mai insegnato.
Un altro tipo di difficoltà è quella "di memoria", direi: il concerto
di Busoni dura una vita, è molto spesso un pantano di catrame e suoni
più note in quello che in tutti e 5 quelli di Beethoven (e sempre con
minor gloria...). Se quindi vien meno la motivazione sportiva, c'è e
concreto il rischio che a metà del terzo, e penultimo, movimento, che,
oltre a durare quando un tempo lungo di una sinfonia maleriana, è a
sua volta diviso in più parti, ti trovi a pensare quanto staresti bene
su una spiaggia assoltata con una Pina colada in mano... e col
pianista muto in panne di memoria il concerto diverrebbe, ancor di più
di quanto non sia già, una estenuante sinfonia concertante. Il che
sarebbe proprio un contrappasso eccessivo per la buonanima di Busoni.
Ultimo tipo di difficoltà direi che sono quelle "di pubblico": c'è
sempre fra le fila qualcuno che quando ti ascolta dice "Ah, ma Serkin
in quel secondo movimento era tutta un'altra cosa" (potrebbe essere il
foyer di un teatro dopo l'esecuzione dei concerti di Mendelssohn), per
cui la difficoltà in questo caso potrebbe dirsi anche "di repertorio".
Si parla forse di "interpretazione" più che di "tecnica", però è
chiaro che esistono quei concerti nei quali, pur non essendo difficili
tecnicamente, la riuscita interpretativa passa attraverso la pura resa
tecnica (parlo di "resa" e non di correttezza). Tipico è il caso dei
due di Liszt pei quali è importantissimo il modo con il quale
l'esecutore crea la propria proiezione sonora e soprattutto il proprio
gesto esecutivo: la difficoltà è quindi teatrale e recitativa e
c'entra molto il palcoscenico. Se i concerti di Liszt li suoni senza
atteggiarti a virtuoso ci sarà sempre molta gente che ricorderà
qualcuno più pirotecnico: in quel caso la difficoltà "tecnica" sta
appunto nel farla capire. Il che vuol dire che tu, esecutore, quanto
meno l'hai molto più che capita, cosa non sempre scontatissima.
Ciao
C