sunbather
2008-11-20 17:01:00 UTC
Scusate, oggi non avevo nulla di meglio da fare. ;-)
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I concerti grossi di Arcangelo Corelli (Fusignano, 1653 - Roma, 1713)
videro la luce ad Amsterdam nel 1714. Come per le precedenti sue opere (le
sonate a tre e le sonate per violino), Corelli non è stato un
rivoluzionario, non ha inventato nulla ma ha, per così dire, canonizzato
ognuna delle forme musicali che da allora e per molti decenni (secoli,
forse) sono rimaste a lui riferite come modello. Il compositore stesso
seguì per corrispondenza l'iter contrattuale per la stampa dell'Opera
Sesta presso l'editore olandese Estienne Roger, anche se poi la
conclusione postuma spettò al suo pupillo Matteo Fornari.
Non essendo pervenuti i manoscritti autografi relativi a questa
pubblicazione risulta difficoltoso assegnargli una data certa di
composizione. L'analisi stilistica induce a pensare che siano stati
scritti in un arco di tempo piuttosto lungo e solo alla fine furono
perfezionati per essere dati alle stampe. Rappresentano infatti una summa
di tutte le precedenti varianti compositive intraprese da Corelli ma, con
grande signorilità, prive del minimo riciclo di materiale già edito, a
parte le cadenze in finale di periodo, contrariamente a quanto avrebbe
fatto - e fece - quel simpatico maneggione di Handel.
L'idea di base è quella di fondere la sonata a tre (principale occupazione
del compositore nei suoi primi vent'anni di carriera) con il concerto
solistico, per violino in questo caso. Le analogie si ravvisano già a
partire dalle sonate da chiesa dell'Op. I (del 1681), con il loro stile
imitativo e i singoli movimenti spesso arcaicamente non omogenei e
suddivisi internamente in una alternanza di modo lento e veloce (modalità
abbandonata nelle sonate successive, nelle quali ogni movimento ha una
grande compattezza). Anche per questi dodici concerti c'è la consueta
ricerca generale di equilibrio e, nello specifico, nella distinzione tra
quelli da chiesa' e quelli da camera': curiosamente, questo equilibrio
non è perfetto come in passato ma il rapporto è di otto da chiesa su
quattro da camera. Non sappiamo se questa discrepanza rispetto alla
meticolosità leggendaria dell'autore sia stata dovuta alla mancanza di
tempo oppure ad un relativo abbandono della suite di danze alla francese,
ormai sempre più desueta, a favore della maggiore ispirazione inventiva
necessaria a quelle del primo tipo.
Caratteristica comune a quasi tutti i concerti è di essere in tonalità
maggiori, segno del desiderio di fondo di voler ispirare buon umore.
Inoltre, gli attacchi di quasi tutti i primi tempi hanno un incedere
sontuoso, staccato, regale, a parte i tre che concludono la serie, che
hanno un preludio di derivazione sonatistica. Un altro elemento che
rientra nella tradizione del compositore è quello di introdurre un brano
dal sapore popolare, che spicca sul contesto sonoro omogeneo di tutti gli
altri: è la Pastorale del concerto n. 8 (come aveva fatto in precedenza
per la Ciaccona dell'Op. II e la Follia dell'Op. V).
Questa raccolta è stata fondamentale in tutta Europa e soprattutto
nell'Inghilterra di quasi tutto il Settecento: Geminiani, Handel,
Locatelli, Avison, etc. sono stati i principali beneficiari del suo
successo, dando a loro l'opportunità di proseguirne la tradizione e, a
loro volta, arricchirla con eccezionali contributi.
Appunti:
Concerto n. 1 in re maggiore: il primo movimento è gia in se stesso, con
la sua successione di tempi lenti e veloci, un concerto grosso in
miniatura (come le ouverture di Handel) e ricorda la frammentazione delle
prime sonate da chiesa dell'op. 1
Concerto n. 2 in fa maggiore: anche in questo caso il primo tempo
frammentario è un concerto a sé. Delizioso l'allegro del finale, quasi un
minuetto, un duetto d'opera buffa, strutturato con le diverse parti che
dialogano per frasi con domanda e risposta.
Concerto n. 3 in do minore: entrata regale nel largo. Il vivace col basso
regolarmente cadenzato che detta il ritmo (come in diverse sonate dell'op.
IV, l'Ottava per esempio).
Concerto n. 4 in re maggiore: è il più bello, secondo me. Quattro
movimenti, compatti, con prevalenza di allegri.
Concerto n. 5 in si bemolle maggiore: un finale spiritosissimo, un
battibecco allegro tra le sezioni.
Concerto n. 6 in fa maggiore: basso continuo incalzante anche nell'allegro
finale di questo concerto.
Concerto n. 7 in re maggiore.
Concerto n. 8 in sol minore: è il concerto fatto per la notte di Natale'.
Contiene la famosa Pastorale, brano che si può considerare l'unica
testimonianza musicale del Corelli arcadico (ribattezzatosi Arcomelo),
accademia frequentata assieme a Scarlatti padre e a Pasquini.
Concerti nn. 9 e 10 in fa e do maggiori: nel finale si affaccia per la
prima volta un minuetto, stile di danza destinato a primeggiare nelle
centinaia di sinfonie scritte da Haydn, Boccherini, Mozart, etc.
Concerto n. 11 in si bemolle maggiore: il preludio adotta il tipico metodo
di molte sue sonate a tre (la Settima dell'Op. II, per esempio), ovvero
primo breve tema - pausa - stesso tema elevato di grado - pausa - sviluppo.
Concerto n. 12 in fa maggiore: anche qui il preludio è più intimo rispetto
all'ufficialità dei primi nove.
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http://qohelet.blog.tiscali.it
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I concerti grossi di Arcangelo Corelli (Fusignano, 1653 - Roma, 1713)
videro la luce ad Amsterdam nel 1714. Come per le precedenti sue opere (le
sonate a tre e le sonate per violino), Corelli non è stato un
rivoluzionario, non ha inventato nulla ma ha, per così dire, canonizzato
ognuna delle forme musicali che da allora e per molti decenni (secoli,
forse) sono rimaste a lui riferite come modello. Il compositore stesso
seguì per corrispondenza l'iter contrattuale per la stampa dell'Opera
Sesta presso l'editore olandese Estienne Roger, anche se poi la
conclusione postuma spettò al suo pupillo Matteo Fornari.
Non essendo pervenuti i manoscritti autografi relativi a questa
pubblicazione risulta difficoltoso assegnargli una data certa di
composizione. L'analisi stilistica induce a pensare che siano stati
scritti in un arco di tempo piuttosto lungo e solo alla fine furono
perfezionati per essere dati alle stampe. Rappresentano infatti una summa
di tutte le precedenti varianti compositive intraprese da Corelli ma, con
grande signorilità, prive del minimo riciclo di materiale già edito, a
parte le cadenze in finale di periodo, contrariamente a quanto avrebbe
fatto - e fece - quel simpatico maneggione di Handel.
L'idea di base è quella di fondere la sonata a tre (principale occupazione
del compositore nei suoi primi vent'anni di carriera) con il concerto
solistico, per violino in questo caso. Le analogie si ravvisano già a
partire dalle sonate da chiesa dell'Op. I (del 1681), con il loro stile
imitativo e i singoli movimenti spesso arcaicamente non omogenei e
suddivisi internamente in una alternanza di modo lento e veloce (modalità
abbandonata nelle sonate successive, nelle quali ogni movimento ha una
grande compattezza). Anche per questi dodici concerti c'è la consueta
ricerca generale di equilibrio e, nello specifico, nella distinzione tra
quelli da chiesa' e quelli da camera': curiosamente, questo equilibrio
non è perfetto come in passato ma il rapporto è di otto da chiesa su
quattro da camera. Non sappiamo se questa discrepanza rispetto alla
meticolosità leggendaria dell'autore sia stata dovuta alla mancanza di
tempo oppure ad un relativo abbandono della suite di danze alla francese,
ormai sempre più desueta, a favore della maggiore ispirazione inventiva
necessaria a quelle del primo tipo.
Caratteristica comune a quasi tutti i concerti è di essere in tonalità
maggiori, segno del desiderio di fondo di voler ispirare buon umore.
Inoltre, gli attacchi di quasi tutti i primi tempi hanno un incedere
sontuoso, staccato, regale, a parte i tre che concludono la serie, che
hanno un preludio di derivazione sonatistica. Un altro elemento che
rientra nella tradizione del compositore è quello di introdurre un brano
dal sapore popolare, che spicca sul contesto sonoro omogeneo di tutti gli
altri: è la Pastorale del concerto n. 8 (come aveva fatto in precedenza
per la Ciaccona dell'Op. II e la Follia dell'Op. V).
Questa raccolta è stata fondamentale in tutta Europa e soprattutto
nell'Inghilterra di quasi tutto il Settecento: Geminiani, Handel,
Locatelli, Avison, etc. sono stati i principali beneficiari del suo
successo, dando a loro l'opportunità di proseguirne la tradizione e, a
loro volta, arricchirla con eccezionali contributi.
Appunti:
Concerto n. 1 in re maggiore: il primo movimento è gia in se stesso, con
la sua successione di tempi lenti e veloci, un concerto grosso in
miniatura (come le ouverture di Handel) e ricorda la frammentazione delle
prime sonate da chiesa dell'op. 1
Concerto n. 2 in fa maggiore: anche in questo caso il primo tempo
frammentario è un concerto a sé. Delizioso l'allegro del finale, quasi un
minuetto, un duetto d'opera buffa, strutturato con le diverse parti che
dialogano per frasi con domanda e risposta.
Concerto n. 3 in do minore: entrata regale nel largo. Il vivace col basso
regolarmente cadenzato che detta il ritmo (come in diverse sonate dell'op.
IV, l'Ottava per esempio).
Concerto n. 4 in re maggiore: è il più bello, secondo me. Quattro
movimenti, compatti, con prevalenza di allegri.
Concerto n. 5 in si bemolle maggiore: un finale spiritosissimo, un
battibecco allegro tra le sezioni.
Concerto n. 6 in fa maggiore: basso continuo incalzante anche nell'allegro
finale di questo concerto.
Concerto n. 7 in re maggiore.
Concerto n. 8 in sol minore: è il concerto fatto per la notte di Natale'.
Contiene la famosa Pastorale, brano che si può considerare l'unica
testimonianza musicale del Corelli arcadico (ribattezzatosi Arcomelo),
accademia frequentata assieme a Scarlatti padre e a Pasquini.
Concerti nn. 9 e 10 in fa e do maggiori: nel finale si affaccia per la
prima volta un minuetto, stile di danza destinato a primeggiare nelle
centinaia di sinfonie scritte da Haydn, Boccherini, Mozart, etc.
Concerto n. 11 in si bemolle maggiore: il preludio adotta il tipico metodo
di molte sue sonate a tre (la Settima dell'Op. II, per esempio), ovvero
primo breve tema - pausa - stesso tema elevato di grado - pausa - sviluppo.
Concerto n. 12 in fa maggiore: anche qui il preludio è più intimo rispetto
all'ufficialità dei primi nove.
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